La finalità nei dialoghi di Platone
“SOCRATE: Allo scopo di
difendere la propria ingiustizia o quella dei genitori, degli amici, dei figli
o della patria, quando sia rea di ingiustizia, la retorica, allora, non ci è
per niente utile, o Polo; a meno non la si intenda utile per scopo
opposto, e non ci sì renda conto che bisogna accusare prima di tutto se stessi,
e poi anche i familiari e, fra gli altri che ci sono cari, chiunque commetta
ingiustizia, che non bisogna nascondere, ma portare allo scoperto il torto
commesso, per scontarne la pena e risanarsi, e che si deve costringere se
stessi e gli altri a non temere e a mettersi nelle mani della giustizia, ad
occhi chiusi e coraggiosamente, come ci si affiderebbe al medico perché tagli e
cauterizzi, perseguendo il bene e il bello, senza metterne in conto l'aspetto doloroso;
e qualora le ingiustizie commesse meritino percosse bisogna offrirsi alle
percosse, qualora meritino la prigione offrirsi a essere imprigionato, qualora
meritino una multa offrirsi a pagare la multa, qualora meritino l'esilio
offrirsi all'esilio, e qualora meritino la pena di morte offrirsi a morire,
essendo se stessi i primi accusatori di sé e dei familiari: questo è lo scopo
per il quale bisogna servirsi della retorica, affinché, portate allo scoperto
le ingiustizie, ci si possa liberare dal male più grande, vale a dire
l'ingiustizia. Dobbiamo dire così, o Polo, o no?”
Questo brano è tratto dall’opera
di Platone “Gorgia”,
uno scritto appartenente al gruppo dei dialoghi giovanili e risalente al 386
a.C. circa. Gli antichi avevano attribuito a quest'opera il sottotitolo “Sulla retorica” perché il dibattito nella
prima parte del dialogo verte proprio sulla natura di questa disciplina.
L’estratto proposto appartiene al
cosiddetto “secondo atto”, durante il quale Socrate e Polo (allievo di Gorgia,
che si è ritirato dal dibattito dopo essere stato sconfitto), stanno discutendo
riguardo la finalità della retorica. Polo afferma che non sia una technè,
ma un'empeiría.
Socrate, invece, compara la retorica alla sofistica, insultando di fatto l’avversario.
L’atto si conclude con la comparazione del retore a un tiranno, che può fare
ciò che meglio gli pare, ma non ciò che vuole, creando un paradosso.
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