Per evidenziare il ruolo centrale che occupa la finalità nell’etica si possono considerare alcune dottrine filosofiche e le differenze che presentano nelle loro tesi.
La teoria teleologica afferma che
un atto sia giusto se è destinato a produrre una prevalenza di bene sul male
almeno pari a quella di qualsiasi altra alternativa accessibile. In altre
parole, in questa teoria il fine dell'azione è posto in primo piano rispetto al
dovere ed all'intenzione dell'agente.
Secondo l’utilitarismo, il "bene"
(o "giusto") consiste in ciò che aumenta la felicità degli esseri
sensibili. Perciò un’azione buona è quella che abbia come scopo l’ottenimento
di maggiore felicità, sia in senso qualitativo che quantitativo.
D’altra parte, secondo la teoria
deontologica, il dovere e l'intenzione sono posti prima del fine dell'azione.
Un esempio è Kant, che assegna alla logica, attraverso l'imperativo categorico,
il dovere di determinare la correttezza o meno di un'azione. Le norme etiche,
quindi, diventano imprescindibili e la legge non può essere condizionata da
nulla che intervenga dall'esterno.
Una dottrina diametralmente
opposta è quella del consequenzialismo. Essa determina la bontà delle azioni
dal conseguimento di determinati scopi per i quali si possono trascurare le
norme.
L’ultima dottrina da citare è
quella probabilistica, cui facevano frequentemente appello i Gesuiti nel XVII
secolo. Essa afferma che, nei casi in cui l'applicazione di una regola morale
sia dubbia, per non peccare basterebbe attenersi ad una opinione probabile.
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